Trotterellando accanto alla mamma, già anziana, andava con un velo di malinconia alla tomba del papà, che - anche lui in là con l’età per diventare padre un’altra volta e accanto ad un’altra donna - lo aveva lasciato troppo presto.
A otto anni ora sentiva su di sé, come avrebbe fatto per tutta la vita, il peso di una famiglia che gli era cascata addosso suo malgrado.
Fratellastri lontani e quasi sconosciuti, con figli più grandi di lui e che con lui parlavamo poco, non erano parte del suo piccolo mondo, dove c’era solo una signora silenziosa e sempre vestita di scuro, spesso in chiesa a pregare, dolce, remissiva e in perenne adorazione taciturna di quel bambino arrivato quando aveva perso tutte le speranze di maritarsi.
Quando per lei era arrivata la proposta del cognato, vedovo e solo come lei, non aveva voluto perdere l’occasione di diventare madre. Così era piovuto dal cielo lui, occhi celeste chiarissimo, diversi da quelli blu intenso della mamma, una cascata di riccioli biondi, irrequieto e continuamente alle prese con invenzioni e costruzioni, il solo maschietto in un quartiere pieno di femminucce che a giocare con loro non ce lo volevano, ma alle quali cercava di imporsi con tutte le sue forze.
O gioco io o non gioca nessuno - le apostrofava - buttando all’aria bambole e tavole apparecchiate con tazzine e piattini microscopici delle piccole donne che giocavano alle signore e che alla fine cedevano a quel marmocchio birichino…
Le visite al cimitero, a trovare quel papà volato via troppo presto, erano serrate quanto malinconiche per quel bambino vivace e, tutto sommato, solo come la sua mamma, in una città di mare, così diversa dal paese di montagna, freddo e glaciale, pieno di neve, dov’era nato..
Accompagnava la madre - erano inseparabili - come un dovere sentimentale, percorrendo il grande viale di ingresso del camposanto e poi una lunga serie di vialetti per arrivare al posto in cui era sepolto il papà, una tomba al piano terra di una lunga serie di loculi, dove i fiori seccavano presto nonostante le visite così ravvicinate della vedova ammantata di scuro e ingobbita da un dolore mal represso.
Lui decise di trovare una soluzione alla sua maniera per far sì che ci fossero sempre fiori freschi: aveva visto vicino casa - un villino nella zona alta della città, piena di campi e giardini colorati - una pianta viola acceso che gli era sembrata bellissima. Era ovunque, di fatto una sorta di infestante, che si propagava alla velocità del fulmine, spontaneamente. La mamma lo chiamava gelsomino notturno, ma chissà se la pianta fosse proprio quella…Così lo aveva piantato davanti alla tomba del papà, diventata un tripudio di viola da cui la vedova doveva ogni tanto liberarla.
Una giungla colorata, infatti, copriva la foto nebbiosa del marito e non solo. In pochi mesi e in pochi anni il gelsomino si era diffuso ovunque; portato dal vento e forte della sua bellezza selvaggia e indomabile, aveva invaso un po’ dappertutto il vasto camposanto e il lavoro dei pochi giardinieri, distratti e scarsamente interessati, non bastava ad aver ragione di questo fiore che rispuntava a fasi alterne per ogni dove.
Un giorno, piccola anche io come quel bimbo monello - che a sua volta, pochi anni dopo, mi avrebbe segnato con un abbandono precoce quanto incolpevole - avevo chiesto a mia madre perché la tomba del nonno fosse sepolta sotto quel cespuglio viola, che mi appariva comunque bellissimo, colorato, gioioso ed elegante.
Opera del tuo papà: mi rispondeva… è stato lui a portare qui il gelsomino quando era piccolo ed ora è dappertutto…
Addirittura, quando non imboccavamo il vialetto giusto, la mamma mi diceva sorridendo: Segui la scia viola… Quell’immagine mi accompagna teneramente da sempre e mi ha convinto, con il rimpianto tipico dei ricordi struggenti, che qualsiasi cosa, per essere bella e desiderabile agli occhi di qualcuno, non ha bisogno di essere esclusiva, irraggiungibile o costosa, ma deve solo appagare gli occhi, la mente, il cuore e l’anima... Tutto il resto è superflua noia…
Candida Virgone